Giorno del Ricordo. 10 febbraio 2021

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Tre libri per spezzare il tempo del silenzio

Giorno del Ricordo. 10 febbraio 2021

Il 10 febbraio ricorre il Giorno del Ricordo. E’ stata una legge del 2004 a istituirlo al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. La data scelta coincide con quella del trattato di pace con cui l’Italia nel 1947 perse vasti territori al confine orientale. L’allontanamento coatto dei giuliano dalmati dalla loro terra, mascherato sotto la forma del diritto d’opzione per l’Italia, “fu un dramma colossale le cui ferite non sono ancora rimarginate” (Raoul Pupo, La lettura, 31 gennaio 2021). Questa parte della nostra storia, rimasta a lungo nel silenzio per una serie di motivazioni politiche, prima ancora di diventare un patrimonio condiviso, è stata raccontata nella letteratura e nella memorialistica.

Quest’anno vogliamo consigliare la lettura di:

1. Enzo Bettiza, Esilio, Mondadori, 1996.
Enzo Bettiza (1927-2017), scrittore, uomo politico, una delle grandi firme del giornalismo italiano, nato a Spalato, aveva vissuto personalmente l’esperienza dell’allontanamento dalla propria terra e descritto il terribile senso di straniamento che ne deriva in uno dei percorsi più importanti del suo intenso memoir Esilio, scritto sotto la spinta emotiva della guerra jugoslava del ’92 e pubblicato da Mondadori nel 1996.
Anch’io fin da ragazzo avevo avuto l’impressione di vivere come sospeso sul bracciale di una sedia provvisoria, sempre sul punto di alzarmi e andarmene altrove nella speranza di trovarmi la sedia giusta su cui fermarmi […] L’esilio prolungato nello spazio e nel tempo, l’esilio senza ritorno, aggravato dal vagabondaggio dispersivo in altri mondi, possiede una rara quanto perforante finalità distruttiva: lentamente carbonizza tutto ciò che siamo stati altrove, recide i vincoli di sangue, spegne i ricordi, fa impercettibilmente tabula rasa del passato. L’esilio è come un suicidio indolore e quasi notarile dell’improbabile persona che l’esule era stato una volta e che non è più” (p. 18).

2. Fulvio Tomizza, Materada, Bompiani, 1982.
Anche Fulvio Tomizza (1935-1999), nato e vissuto in una regione dell’Istria passata alla Jugoslavia, ha raccontato, poco più che ventenne, la tragica esperienza dell’esodo degli italiani. Questo che riportiamo è un commento al libro scritto da Claudio Magris: 
Quando uscì nel 1960, Materada - il primo e ancor oggi miglior romanzo dell’allora giovanissimo e sconosciuto Fulvio Tomizza - arricchì di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità; una pagina inoltre assolutamente inedita nella letteratura triestina […]. Materada era un’opera epica che nasceva da lacerazioni reali e profonde, drammatiche e direttamente vissute, componendole in quella malinconica e umanissima armonia che è appunto il segno della vera epicità. […] Il mondo da cui nasceva Materada – l’Istria nel momento dell’ultimo esodo, nel 1954 – era un mondo realmente straziato dai rancori, torti e vendette sanguinose, e Tomizza l’aveva vissuto e patito

3. Silvia Dai Pra’, Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria, Laterza, 2019.
Un memoir familiare per “spezzare il tempo del silenzio”, “un libro coraggioso, e al tempo stesso lieve, che, mentre prova a riportare alla luce le vicende e il destino di una famiglia, affronta il tema delle conseguenze, per generazioni, della violenza subita e delle sofferenze, delle amnesie e dei silenzi necessari per continuare a vivere” [cit. dalla copertina del libro].
Il panorama non lo ricordavo così: verde pallido, quasi vellutato, dolce; minuscole stradine che si aprivano tra i boschi e fitte coltivazioni di vigneti; il mare trasparente che appariva improvviso, tra le foglie; paesini immobili abitati da vecchi parlavano l’italiano […]. Era impossibile accostare a quel panorama gentile la parola ‘carso’, la parola ‘foiba’: troppe consonanti, troppa arsura – ma si sa che nulla è più illusorio della bellezza, dell’ordine delle cose: in ciascuno di quei paesini deliziosi non mancava mai una lapide messa lì a ricordare dei morti, e chissà quanti se ne stavano ancora sotto di noi, insepolti, a ingrassare le vigne. 
Scoprii che esiste un’altra parola per definire una foiba, ‘dolina’, e provai a usarla per sostituire quel brutto termine nella mia testa – ‘dolina’ portava con sé tutta una languida atmosfera ungarettiana, mi faceva sentire una docile fibra dell’universo. Ma non ce l’ho fatta: il termine ‘dolina’ non ha attecchito. Non si può mettere in mezzo la poesia per attenuare il suono dei cadaveri che scricchiolano sotto le scarpe.
” (p. 32-33).

PM