Nascere donna in Afghanistan

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Io non sono un debole salice piangente che si piega al vento. Io sono una donna Afghana, e questo è il mio lamento (Nadia Anjuman)

Nascere donna in Afghanistan

La sfortuna più grande per una donna in questo momento è nascere in Afghanistan. Lo dice Soraya Malek d’Afghanistan, erede della dinastia deposta nel 1929, da sempre impegnata nella difesa delle donne afghane, in un’intervista a Giada Maldannini su La 7. 
Mentre i signori della guerra si sono insediati senza incontrare alcuna forma di resistenza armata, la situazione di povertà, insicurezza, violazione dei diritti umani che già caratterizzava il paese afghano sta subendo una forte accelerazione, soprattutto per quanto riguarda l’universo delle donne che faticosamente cercavano di affrancarsi dall’assoluto monopolio maschile in ogni ambito sociale, politico, economico e culturale.  
Le donne hanno lottato duramente durante questi anni contro ingiustizia, corruzione, mancato riconoscimento di pari dignità e diritti.  Alcune di loro, come la parlamentare Malalai Joya, avevano già dovuto lasciare il loro paese, vivendo da anni sotto scorta in Europa, per aver osato accusare pubblicamente la presenza di criminali di guerra nell’assemblea politica nazionale, la Loya Jirga.  Altre hanno combattuto per ottenere il diritto di studiare, di esercitare le professioni, di scrivere e pubblicare libri, spesso pagando questi tentativi di emancipazione con la loro stessa vita. Sono bastati pochissimi giorni per deporre ogni sogno di riscatto e per perdere i pochi diritti che erano stati da loro conquistati. 
Tahar Ben Jelloun sulle pagine de La Repubblica scrive della strana combinazione dell’odio dei talebani per le donne e insieme per la cultura: “I talebani (letteralmente, “gli studenti”) e i Boko Haram (“libro proibito”) in Africa s’incontrano nello stesso tunnel dell’oscurantismo. Entrambi i fenomeni sono segnati dall’odio per i libri e la cultura. Dall’odio e l’asservimento della donna. […]
In Nigeria Boko Haram rapisce giovani liceali per indurre i genitori a non mandare più le figlie a scuola. I talebani si rendono responsabili della distruzione delle monumentali statue di Buddha a Bamiyan. […] Il nuovo ordine prevede la sottomissione e la schiavitù dei bambini e delle donne”. 
Niente meglio delle parole di Nadia Anjuman, poetessa afghana, sa raccontare lo strazio che viene fatto al mondo delle donne. Lei ha infatti vissuto sulla sua pelle questo dolore fino a perdere la vita. 
Nadia Anjuman aveva frequentato ad Herat una scuola femminile di cucito che nascondeva una sorta di “circolo letterario” in cui si leggeva e si scriveva poesia.  Lei stessa scriveva poesie che contenevano messaggi fortissimi e che sono state pubblicate, dopo la caduta del regime talibano, in Afghanistan, in Iran e in Pakistan, negli Stati Uniti e anche in Italia (Elegia per Nadia Anjuman. Antologia a cura di Cristina Contilli e Ines Scarparolo, Carta e penna, 2006).  
Nel 2005, all’età di venticinque anni la scrittrice è stata massacrata da suo marito che aveva contrastato da sempre la sua attività, dopo una lettura pubblica delle sue poesie. Ufficialmente Nadia è morta per un malore improvviso o un suicidio.
Le sue parole ci trascinano in un mondo fatto di repressione, di resistenza passiva e di strazianti tentativi di ribellione presto finiti nel silenzio che pensavamo di esserci lasciati alle spalle per sempre. 

 

Non ho voglia di parlare
Cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita,
Non fa alcuna differenza se canto o no.
Perché dovrei parlare dolcemente,
Quando non provo che amarezza?
Oh, l’oppressore si diverte.
Mi ha colpito in bocca.
Non ho un compagno nella vita
Per chi dovrei essere dolce?
Non c’è differenza tra parlare, ridere,
morire, esistere.
Io e la mia forzata solitudine.
Unita al dolore e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere sigillata.
Oh, il mio cuore, sapete, è la sorgente
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala intrappolata,
Che non mi permette di volare?
Sono stata in silenzio troppo a lungo,
Ma non dimentico la melodia,
Perché in ogni momento sussurro
Le canzoni del mio cuore,
Ricordando a me stessa
Che un giorno spezzerò questa gabbia,
Volando via da questa solitudine
E cantare come una persona malinconica.
Io non sono un debole salice piangente
Che si piega al vento.
Io sono una donna Afghana,
E questo è il mio lamento.
[traduzione di Alessio Zaccardini]

PM