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Photo Levi, di Marco Belpoliti (Acquario, 2021)
Ricordare il giorno della Memoria  sfogliando delle foto si può. Se queste foto appartengono a Primo Levi che è stato uno dei testimoni più importanti della Shoah, sopravvissuto ad Auschwitz, chimico e scrittore, un autore chiave della modernità,  tra i più grandi del nostro Novecento, autore di Se questo è un uomo (Einaudi 1958), La tregua (1963), Il sistema periodico (1975), La chiave a stella, premio Strega nel 1979, I sommersi e i salvati (1986).
Marco Belpoliti, lo scrittore e docente universitario che ha curato l’edizione delle Opere complete di Primo Levi pubblicate da Einaudi tra il 2016 e il 2017, e che ha collaborato con Davide Ferrario al film La strada di Levi, lo scorso ottobre ha dedicato a Levi una raccolta fotografica (edita da Acquario)  intitolata Photo Levi.
Specchiarsi negli occhi di Primo Levi, così come avviene in queste fotografie, spesso scattate all’improvviso, altre volte frutto di professionisti che lavoravano per i giornali,  equivale  innanzitutto a “ripercorrere la via tortuosa che ha portato il chimico e il testimone della Shoah a diventare scrittore”, ma significa anche scoprire il percorso di un uomo segnato da un’esperienza traumatica indelebile che lo condannerà a una depressione che, tra alti e bassi, accompagnerà la sua esistenza anche nei momenti del suo affermarsi come scrittore di successo.
Si tratta di foto poco conosciute che fissano l’inafferrabilità del volto di un uomo estremamente riservato ma che acconsente a posare con docilità (si veda la foto con la macchina per scrivere rovesciata), quasi sempre nel suo studio, come si richiede a uno scrittore.
Bellissimo e commovente il ritratto scattato da Basso Cannarsa nel 1987, due mesi prima della morte dell’autore avvenuta per un gesto  volontario. “E’ lo sguardo di chi si è smarrito”, annota Belpoliti che lo conosceva bene. Ma la tristezza di Primo Levi ha un contenuto preciso che ci lascia senza fiato: è quella dei sopravvissuti.

L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti, di Roberto Franchini (Marietti, 2021)
Si può raccontare l’orrore dei lager anche attraverso la musica che, tra consolazione e tortura, fu composta ed eseguita nei campi.
Tutto è cominciato da una foto, molto diffusa sul web e sui libri: “l’orchestrina di Auschwitz”. L’attribuzione errata  a questo famigerato campo di sterminio – si trattava in realtà di Mauthausen – fu usata dai negazionisti per dimostrare che circolavano foto false sui lager. Le associazioni dei sopravvissuti, dopo lunghe ricerche, ebbero le prove della verità dei fatti. A Mauthausen c’era un laboratorio fotografico e la foto era stata scattata nel momento precedente l’impiccagione di un prigioniero che aveva tentato la fuga ed era stato catturato. Si era ricostruita anche la data, 29 o 30 luglio 1942. Dunque, nei campi di sterminio si faceva musica.
La nostra immaginazione non riesce a pensare che, oltre a una “fanfara di scherno” che accompagna un’esecuzione, nei campi fosse praticata la musica insieme allo sterminio. Questo libro documenta che l’arte poteva convivere con l’atrocità. La musica “era comando e umiliazione”, ma rappresentava anche “per gli internati l’ultimo brandello di vita interiore. […] Una massa di prove ci costringe ad ammettere che la musica nei campi era una struttura portante del sistema concentrazionario. […]. Lo scopo era quello di abolire la possibilità stessa di una distinzione tra il male e il bene”. Lo stesso “Mengele decideva la sorte delle sue vittime agitando nell’aria una bacchetta da direttore d’orchestra”. (La sonata degli spettri, di Michele Smargiassi, La Repubblica, 5 gennaio 2022).