L'ambigua potenza del linguaggio
Giornate della filosofia 2021. Il contributo di Marisa D'Ulizia
"Comincio questa riflessione in modo un po’ irrituale, con una divagazione personale e, prima ancora, con una citazione.
Nel saggio “Le parole” (1964) Jean Paul Sartre scrive:
«Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri. Nell’ufficio di mio nonno ce n’era dappertutto, era fatto divieto di spolverarli, tranne una volta all’anno, prima della riapertura delle scuole. Non sapevo ancora leggere, ma già le riverivo queste pietre: ritte o inclinate, strette come mattoni sui ripiani della libreria o nobilmente spaziate in viali di menhir, io sentivo che la prosperità della nostra famiglia dipendeva da esse (…), monumenti tozzi e antichi, che mi avevano visto nascere, che mi avrebbero visto morire (…). Li toccavo di nascosto, per onorare le mie mani con la loro polvere». «Non ho mai razzolato per terra – scrive ancora - non sono mai andato a caccia di nidi, non ho erborizzato né tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, la mia stalla e la mia campagna”. E ancora: “Il Grand Larousse faceva le veci di tutto: ne prendevo un tomo a caso (…) lo aprivo, vi snidavo i veri uccelli, vi facevo la caccia alle vere farfalle posate su veri fiori (…). Uomini e bestie erano lì, in persona. Fuori, all’aperto, si incontravano vari abbozzi che assomigliavano più o meno agli archetipi senza raggiungerne la perfezione: al Giardino d’Acclimatazione le scimmie erano meno scimmie, al Giardino del Lussemburgo gli uomini erano meno uomini: platonico per condizione (…) trovano più realtà nell’idea che nella cosa (…). Nei libri ho incontrato l’universo: assimilato, classificato, etichettato, pensato (…). Da ciò venne quell’idealismo per liberarmi dal quale ho impiegato trent’anni».
Credo di aver attraversato, nell’infanzia e nell’adolescenza, un’esperienza analoga. Nello studio di mio zio si ammassavano, in una sorta di ecumenica confusione, libri di ogni tipo: romanzi, sussidiari di scuola elementare, fascicoli di storia dell’arte, raccolte di fiabe, trattati di geometria… Da bibliofilo appassionato ma poco selettivo, lo zio accoglieva di tutto, senza fare differenza, né riusciva a leggere gran parte della carta stampata che custodiva religiosamente sugli scaffali e che accresceva di continuo, con tenacia. In quello studio ho trascorso molti pomeriggi essenziali nel mio percorso di formazione: lì ho maturato un’insidiosa vocazione all’astratto che è stata la cifra dominante della mia prima giovinezza, certo non estranea alla scelta della facoltà di filosofia; lì è nato l’interesse per il rapporto che lega le parole alle cose, prima studiato secondo il canone accademico, negli anni dell’università, poi approfondito con approccio empirico, in quelli dell’insegnamento; lì s’è manifestata, sia pure in modo velato e oscuro, un’intuizione che avrei sviluppato consapevolmente più tardi e cioè che l’onnipresenza del linguaggio comporta spesso la sua invisibilità. Detto in altri termini, il fatto che il linguaggio sia sempre già qui, fuori e dentro di noi - garantito, scontato, pacifico, assodato - produce una sorta di “sordità cognitiva” che ci impedisce di ascoltarlo come un fatto inaudito e di porre domande radicali in una ricerca continua". Leggi tutto